La Torre dell’Acqua di Artena, “occasione per un grande dibattito civico”

Mandalo ai tuoi amici


Segui La Nuova Tribuna su Telegram (clicca qui e iscriviti al canale) o su WhatsApp (clicca qui e registrati)


 

La Torre dell’Acqua di Artena, testimonianza dell’approvvigionamento idrico della città nata nel Dopoguerra, va abbattuta o riqualificata? La riflessione dell’ing. Matteo Riccelli

Parlare di restauro, quello architettonico in particolare, sembra non in linea con la modernità che ci circonda, come qualcosa relegato all’attività professionale di pochi nostalgici, un atto alla vista dei più non sempre necessario e soprattutto dispendioso, non giustificabile se confrontato con l’opportunità tecnica ed economica che invece rappresentano le nuove costruzioni.

È invece, quello del restauro architettonico, un processo tecnico e mentale, che appartiene totalmente alla nostra società moderna, inesistente nella mentalità di coloro che ci hanno preceduto e da cui abbiamo (ironia della sorte) ereditato gli edifici a cui diamo importanza e che tendiamo a restaurare per non perderli. Per dirlo con le parole di Viollet Le Duc (1814-1879) considerato uno dei primi teorici dell’architettura moderna:

La parola e la cosa sono moderne. I Romani ricostruivano, non restauravano, e la prova è che il latino non ha una parola corrispondente alla nostra parola restauro, con il significato che le si attribuisce oggi”

Anche i luoghi contribuiscono a delineare la nostra personalità

Ogni cosa che fa parte della nostra vita in qualche modo contribuisce a delineare la nostra personalità, ed anche gli edifici si collocano nella scala di valori dell’uomo in un intervallo che va dalla monumentalità alla semplice funzionalità.

In questo intervallo è difficile fissare dei punti di confine tra i diversi valori che l’uomo attribuisce alle costruzioni e ai luoghi in generale, la nostra natura soggettiva tende a farceli collocare su piani diversi rispetto alla nostra esperienza di vita ma soprattutto rispetto alla nostra percezione urbana, come direbbe Renzo Piano Un brutto libro si può non leggere; una brutta musica si può non ascoltare; ma il brutto condominio che abbiamo di fronte a casa lo vediamo per forza”.

Cosi, se parliamo di Artena, Piazza della Vittoria è un parcheggio vitale per coloro che abitano il centro storico, allo stesso modo può essere un luogo di ricordi per coloro che l’hanno vissuta come piazza quando era il centro della città e auspicherebbero piuttosto un’area pedonale, non condividendo la funzione attuale di quel sito.

È facile comprendere quindi come le strategie urbane che ruotano intorno agli edifici e ai luoghi in cui viviamo non possono quasi mai essere condivise dalla totalità delle persone poiché per l’uomo comune un edificio non è più o meno importante di un altro per la sua sola valenza estetica, la sua storia o per la sua funzione, la sua importanza è soprattutto attribuita dalla percezione urbana nonché intima che ha di quel manufatto, dall’importanza che quel luogo ha significato sotto tanti punti di vista nella sua vita.

Ne consegue che nel momento in cui si decide di salvare un edificio fatiscente, invece che abbatterlo, l’inizio del processo parte con l’attribuzione di un valore “umano e comunitario” che esula dalle caratteristiche funzionali e architettoniche.

I valori che “vengono dal basso” tra funzione e percezione

Un valore implicito che viene dal basso, dalla popolazione, un valore che può essere storico o antropologico per ciò che un edificio o un luogo ha rappresentato nel passato per la comunità, o un valore che può essere riconosciuto a priori rispetto a qualcosa che l’edificio o quel luogo potrà essere in futuro agendo per la sua riqualificazione.

Non esiste restauro esclusivamente come procedimento tecnico, il restauro come concetto è squisitamente umano, perché non può esimersi dal confronto con gli uomini che abitano un determinato luogo e che all’ombra dell’edificio in questione, sono nati e cresciuti, nel bene e nel male. Riprendendo le parole di Viollet Le Duc:

Restaurare un edificio non è conservarlo, ripararlo o rifarlo, è ripristinarlo in uno stato di completezza che può non essere mai esistito in un dato tempo”

Di fronte al patrimonio immobiliare abbandonato o fatiscente che troviamo nelle nostre città, vi è da chiedersi in prima battuta se un determinato oggetto edilizio col cambiare dei tempi e della società possa ancora svolgere una funzione utile alla comunità stessa, magari a seguito di una riqualificazione dandogli appunto una completezza che non ha adesso. Allo stesso tempo c’è da interrogarsi se questo oggetto edilizio abbia partecipato e in che misura alla definizione della percezione urbana della popolazione, se lo abbia fatto divenendo egli stesso un punto di riferimento oppure uno scomodo ostacolo visivo.

Funzione e percezione, sono i cardini fondamentali intorno al quale deve ruotare il ragionamento da compiere quando ci si trova a dover scegliere, o perlomeno valutare, le azioni da intraprendere nei confronti di un edificio che allo stesso modo può essere abbattuto oppure ristrutturato.

È un ragionamento questo che è lungo e difficile, un processo decisionale di tale importanza non può esser calato dall’alto, ma deve essere qualcosa che soprattutto nei centri minori e intorno ad edifici significativi, va compiuto in seno alla comunità che vi abita, ascoltando posizioni diverse e contrapposte mettendo sullo stesso piano le ragioni tecniche e le ragioni antropologiche.

Nel Dopoguerra qualcuno voleva smontare le “pallotte”

Vi è qualcuno che sognerebbe mai di demolire o lasciare al decadimento un oggetto edilizio come l’Arco Borghese? Eppure nell’immediato dopoguerra a causa dei danni subiti, abbiamo rischiato che venissero smontate le “pallotte” per procedere all’installazione di una ringhiera in ferro per alleggerire la struttura, ciò non accadde perché il popolo tramite i suoi rappresentanti fece sentire la propria voce ai funzionari per la ricostruzione restii a pagare le somme di denaro necessarie al suo restauro.

È ovviamente questa una provocazione per far intendere che benché l’Arco Borghese sia una costruzione che non ha una funzione strutturale o strategica per la città, è invece fondamentale per la comunità che la abita, perché il popolo riconosce in quel simbolo la propria storia e il proprio retaggio culturale, e perché sotto di esso hanno camminato i nostri avi, i nostri nonni, e il loro ricordo vive tra le pietre di quel monumento.

La Torre dell’acqua per Artena

Allo stesso modo a mio parere non è da prendere a cuor leggero l’abbattimento di edifici più moderni, sicuramente artisticamente e storicamente meno importanti, ma che si stagliano da sessant’anni nel profilo della nostra città e che hanno contribuito nel bene o nel male alla percezione urbana della città tra la popolazione, e all’ombra dei quali si sono succedute generazioni di artenesi.

Parlo in particolare della Torre dell’Acqua, che ha contribuito allo sviluppo del centro urbano moderno di Artena, garantendo l’approvvigionamento idrico alle nuove abitazioni in cui si è stabilita una parte importante del paese e per la quale quell’edificio ha rappresentato un valore fondamentale per la vita quotidiana, l’acqua in ogni casa. Un edificio senza il quale non si sarebbe potuto immaginare lo sviluppo urbano a valle del centro storico.

Oggi la funzione di quel manufatto, cosi come la sua estetica, sono chiaramente decaduti come è noto agli occhi di tutti, e il dibattito che potrebbe scaturire intorno ad un possibile restauro o al suo abbattimento potrebbe rivelarsi estremamente interessante e stimolante per una città come la nostra storicamente restia ai confronti.

Esempi di restauri e riqualificazioni tra fabbriche e torri dell’acqua

Di esempi eccelsi di restauro e riqualificazione di edifici potremmo dire “industriali” o “infrastrutturali” ne è piena l’Italia, per fare i conti nella nostra regione, a Roma fabbriche dismesse, mattatoi, altri edifici produttivi abbandonati perché non più “utili” sono stati riconvertiti in spazi della cultura o semplicemente a luoghi di lavoro terziario, cosi come nostri vicini di Colleferro poco tempo fa hanno dato il via una riqualificazione dello storico zuccherificio cittadino trasformandolo in una “fabbrica della musica”.

Se parliamo esclusivamente di torri dell’acqua esempi ben ragionati di riconversione a poli culturali, uffici, o centri di aggregazione sociale si ritrovano a Budrio (BO), San Casciano (FI), Fossacesia (CH) solamente per citarne alcuni, ma abbiamo anche esempi più vicini a noi come Pontinia (LT) o Latina dove il tema della riqualificazione del serbatoio idrico cittadino è stato oggetto addirittura di un concorso internazionale di idee.

Il dialogo come mezzo per evitare un risultato inutile per la comunità

È chiaro che oggi i conti vanno fatti in maniera precisa, non si può rischiare di intraprendere una qualsiasi azione con soldi pubblici rischiando di arrivare ad un risultato inutile per la comunità. Ed è qui che entra in gioco il dialogo partecipato tra tecnici e popolazione basato sui valori antropologici e urbanistici insiti in quell’edificio, nonché sugli obiettivi strategici di una sua riqualificazione.

Perché solamente individuando una funzione futura che sia valore aggiunto alla vita cittadina, oppure vera opportunità economica, possono giustificare l’impegno di somme di denaro tali da ridare vita e donare bellezza ad un edificio che adesso è dormiente e antiestetico.

Non c’è una ricetta scritta, si può discutere tra addetti ai lavori sulle scelte tecnologiche più idonee, ma sulla funzione futura e sul valore urbano di quell’edificio non ci si può appellare a dogmi scientifici perché scegliere se un edificio, che è al centro della nostra città da sessanta anni, sia passibile di abbattimento o di restauro è qualcosa che bisogna di una pluralità di voci e punti di vista assai vasta.

Un edificio da salvare o da abbattere?

Quell’edificio va salvaguardato perché è importante per il popolo come “oggetto urbano” oppure va abbattuto perché è un “fastidio”? Se decidessimo di salvarlo cosa potremmo farne per giustificare l’impiego dei nostri soldi? Vale la pena farne un museo magari poi sempre chiuso, vale la pena trasformarlo in una galleria commerciale o nella sede di uffici rischiando poi di non trovare acquirenti o affittuari?

D’altro canto è opportuno considerare l’abbattimento come soluzione migliore senza pensare ad alternative, perdendo magari la possibilità di realizzare un intervento di restauro, moderno e magari unico nel suo genere, trasformandolo in qualcosa che diventi fiore all’occhiello della nostra comunità?

Interpelliamo per prima la popolazione

Sono questi interrogativi che non possono essere risolti tra le poche righe di un articolo o tra le mura degli uffici tecnici, necessitano di valutazioni lunghe e soprattutto partecipate. Valutazioni che devono essere portate avanti pesando l’impatto urbanistico di qualsiasi decisione valutandone tutti gli aspetti, da quello sociale a quello economico finanche a quello puramente estetico.

La mia idea, è che si debba interpellare per prima la popolazione, che dal basso arrivino suggerimenti e punti di vista che nulla debbono avere a che fare con la tecnica, ma che guidino il processo decisionale partendo dalla valenza come riferimento urbano per il popolo di questo edificio. Prendendo come spunto le parole del prof. Sergio Los “un dialogo intenso sull’architettura civica crea il progetto del mondo in cui viviamo”, più dialoghiamo e ci confrontiamo sull’architettura della nostra città, più la nostra comunità ne uscirà arricchita.

Ing. Matteo Riccelli

WhatsApp Contatta La Tribuna