Quando una scuola per amministratori locali?

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Le leggi che cambiano frequentemente e l’esperienza dimostrano che c’è bisogno di formare chi prende incarichi pubblici

“La legge non ammette ignoranza” è un principio classico, caposaldo del diritto penale italiano. Fondato sui doveri inderogabili di solidarietà sociale, sta a indicare che è obbligo dei cittadini di informarsi sulle leggi dello Stato, che a sua volta dovrebbe promuoverne la conoscenza. Ma quante volte ci si imbatte in sanzioni o procedimenti perché non si sapeva dell’esistenza di certe prescrizioni o di certe interpretazioni dei tribunali? Quando cose del genere hanno a che fare con amministratori, la questione diventa di rilevanza pubblica, indipendentemente che si tratti di cose fatte in buona fede, intenzionalmente o per ignoranza.

Lasciamo stare le cose complicate del diritto amministrativo, di quello contabile e del diritto del lavoro. Prendiamo il penale. In quanti, ad esempio, sanno che il reato di concussione (da 6 a 12 anni) secondo la casistica della giurisprudenza si configura anche solo quando il pubblico ufficiale (o l’incaricato di pubblico servizio) esercita pressioni su un candidato di un concorso affinché si ritiri dalla prova? E non serve nemmeno che la vittima ceda alle pressioni: ad integrare il reato basta il comportamento del pubblico ufficiale. Di più: pensate che per la concussione “ambientale” non serve nemmeno la minaccia (esplicita o implicita), perché può bastare un comportamento che corrobori la convinzione del privato di dover dare utilità per prassi consolidata.

Oppure a volte mi chiedo in quanti abbiano chiaro che la corruzione (da 3 a 8 anni) non è un reato di evento, ma di pericolo, nel senso che basta l’accordo per renderlo perseguibile, senza la necessità che la “mazzetta” venga data. Per essere chiari, la “mazzetta” può anche essere destinata ad altri, purché collegata all’asservimento della funzione del pubblico ufficiale o all’ottenimento di un atto. E non serve che sia denaro: può anche trattarsi di “vantaggi sociali le cui ricadute patrimoniali siano mediate e indirette”.

Se parliamo di “traffico di influenze illecite” (da un anno a 4 anni e sei mesi), non è immediatamente intuibile che il codice persegua il privato che sfrutta o vanta, con un altro privato, relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio per farsi dare o promettere utilità quale prezzo della propria mediazione. Già nel leggerlo non è facile da capire. E non parliamo dell’abuso d’ufficio, che è il cruccio di qualunque amministratore. Ma andiamo avanti.

La legge penale sanziona chi, per denaro o utilità anche solo promessi, si astiene dal concorrere alle gare pubbliche e chi si adopera in tal modo affinché altri se ne astengano. O chi in vari modi illeciti condiziona il procedimento di formazione del bando di gara, che va deciso in autonomia da chi ne ha precisa competenza. Ne segnalo un’altra: è vietato anche che due imprese sostanzialmente collegate, perché in capo a uno stesso soggetto o a due soggetti legati da stretta parentela, partecipino a una stessa gara con due proposte. E questo solo per fare qualche esempio meno noto ai più.

Sono cose che non tutti sanno. Chi le sa, è perché le ha studiate o perché ci si è imbattuto, non certo perché ne ha parlato in famiglia durante il pranzo. Spesso non si sa la differenza tra diffamazione, ingiuria e calunnia, o che è perseguito il furto d’uso (prendere una cosa che poi si rimette a posto). Vi chiedo: dall’esperienza comune si può dare per scontato che questi concetti siano noti a chi, per spirito di volontariato e per far del bene alla comunità, pur non avendo studiato e parlando l’italiano in modo incerto si imbarchi in esperienze amministrative in qualche comune di provincia che lotta per sbarcare il lunario?

Certo è che lo si presume per legge, altrimenti tutti farebbero gli gnorri. Così si deve contestare il reato a chi commette le azioni previste come tali purché ci sia volontà del comportamento e ignoranza non scusabile. Colpa sua che non si è informato. Ma lo Stato, le Regioni e i partiti non sono esenti da responsabilità.

Le scuole di partito non ci sono più e i neofiti che si impegnano negli enti locali non possono che imparare sulla propria pelle, oppure leggendo i giornali o mettendosi a studiare. Non è certo ammissibile lasciare la politica solo ad avvocati e a scienziati politici. Democrazia e uguaglianza sostanziale vorrebbero che la partecipazione fosse promossa anche con l’informazione e con occasioni di formazione per chi non ha potuto studiare il diritto, per chi ha studiato altro o per chi ha scelto la strada del lavoro subito.

Una buona idea sarebbe quella di costituire una fondazione o un altro ente no-profit che si occupi della formazione degli aspiranti amministratori. Anche perché con la riforma approvata dal Governo Conte 1, votata da Lega e 5 Stelle (contrario Pd, astenuto Fratelli d’Italia, assente dall’aula Forza Italia), non solo sono state aumentate le pene per certi reati contro la pubblica amministrazione. Ma i condannati per quei reati non potranno nemmeno accedere ai benefici carcerari e alle misure alternative alla detenzione. Verranno cioè trattati nel modo più duro, sempre che non abbiano collaborato con la magistratura.

A me sembra giusto che la magistratura applichi la legge. Ma francamente mi sembra ingiusto che il sistema formativo pubblico funzioni così. Lo Stato e le Regioni hanno una loro responsabilità nella formazione civica dei cittadini, a cui hanno abdicato da quando è stato tolto lo studio dell’Educazione civica nelle scuole. Oggi le normative cambiano da un anno all’altro e non si può non pensare a una scuola per amministratori locali e a una formazione continua obbligatoria per chi svolge ruoli pubblici elettivi, come quella che fanno tutti i professionisti. A tutela loro, a promozione della partecipazione negli enti locali e a nostra miglior fortuna.

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